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Caro Diario, Ti scrivo: la Storia (In)Finita dell'Innovazione in Edilizia

Una pagina del diaro di Angelo Ciribini racconta la Storia (In)Finita dell'Innovazione in Edilizia

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Caro Diario,

Rovistando casualmente, a seguito della scomparsa di mia madre, che pure una parte non marginale ebbe nella vicenda di cui tratto, negli archivi familiari, ho rinvenuto l'epistolario che mio padre, la cui opera è, peraltro, già stata analizzata grazie al volume curato da Daniela Bosia (L'opera di Giuseppe Ciribini, Franco Angeli, Milano 2013) e al lavoro di Pier Paolo Peruccio dedicato a Gustavo Colonnetti, intrattenne con Gérard Blachère.
 
All'interno di esso, una corrispondenza risalente al 1968, a seguito di un incontro tra gli amici nella fattispecie avvenuto a Bruxelles trattava, ovviamente, dell'approccio prestazionale: condividendola con un amico e collega del CSTB che riveste attualmente un importante ruolo nelle politiche digitali del governo francese, la sua giusta osservazione verteva sul fatto che l'attualità del tema fosse, al contempo, rassicurante e inquietante.
 
Naturalmente, come allo stesso proposito mi faceva osservare Randy Deutsch, la stessa età digitale impedisce oggi di conservare la ricchezza che le epistole analogiche consentivano un tempo: e, in effetti, già questa affatto casuale e assolutamente limitata esplorazione di un paio di faldoni dischiude una rete di relazioni internazionali che, dagli Anni Quaranta agli Anni Ottanta, si dipanava lungo il duplice filo conduttore delle relazioni intellettuali e di quelle imprenditoriali.
 
Da un lato, è nota, ad esempio, una lettera di Adalberto Libera a Giuseppe Ciribini, su cui era stato organizzato un incontro anni fa, così come di quest’ultimo sono conosciute l'assistentato con Enrico Griffini e Giovanni Muzio, le intense frequentazioni, tra l'altro, con Franco Albini, Ludovico Belgioioso, i fratelli Castiglioni, Ernesto Nathan Rogers, Giuseppe Samonà, Marco Zanuso, ma anche Pier Luigi Nervi, Eduardo Torroja, Konrad Wachsmann, oltre agli ambienti filosofici, da quelli legati all'Università Cattolica di Agostino Gemelli, a Enzo Paci, a Gianni Vattimo e, infine, a Massimo Cacciari.

D'altra parte, tutta l'attività svolta a livello di ricerca presso Politecnico di Torino e di Milano, HfG Ulm, CNR, AEP, UNI, ICITE; CRAPER, AIRE, AIP, Comunità Economica del Carbone e dell'Acciaio, Nazioni Unite, CIDB, CIB, unitamente all'impegno più direttamente manageriale, colla Metropolitana Milanese, e politico, nei rapporti con Granelli, Borruso, Marcora, Ripamonti, Romita, Scalfaro, testimoniano il contributo a tutto tondo di esponenti di una classe dirigente che, complessivamente, ha condotto il Paese alla rinascita dopo gli eventi bellici.
 
Dall'archivio, da una sua minima parte, emergono, appunto, parzialmente e disordinatamente, missive di Giuseppe Pagano sulla razionalità dell'architettura rurale, di Bruce Martin, di Philip Dunstone e di Duccio Turin sulle lecture all'Architectural Association e alla Bartlett, di Bob Ward e di Colin H. Davidson sulla industrializzazione edilizia, di Pierluigi Spadolini sulla progettazione integrata, di Giulio Pizzetti sul rapporto tra concezione e calcolo strutturale, di Roberto Gabetti sulla tutela dei beni immobiliari, di Bernard Hamburger sul colloquio di Yerres, inviti in Argentina, in Brasile, in Canada, a Cuba, in Venezuela, le lettere di Arnaldo Foschini, ma anche partecipazioni a eventi sulla prefabbricazione e sulla coordinazione modulare lontani, come al RIBA nel 1954, e vicini, come a Balatonfuered per Europrefab, nel 1978, di cui mi ricordo le visite alle architetture contemporanee di Budapest con Tamás Szirmay.

Questa articolazione dialettica tra sfere differenti, ma correlate, a proposito dello stesso tema è ben presente alla mia memoria, a partire dal (mio primo, a sette anni) convegno al Centro Pio Manzù a Rimini nel 1972, a cena con Gillo Dorfles e Silvio Ceccato, o, a Milano, poco dopo, con Milan Zloković e Tine Kurent, al ricevimento a Stoccarda nel 1978 per il conferimento della laurea h.c. a Bob Frommes, sino al lungo colloquio notturno a Castrocaro Terme del 1984, alle riflessioni con Antonio Petrillo in Domus Academy o con Veve Calvi al Politecnico di Torino, con Edoardo Benvenuto e Sabino Acquaviva e, ancora oltre, alla conversazioni con Romano Gasparotti e Massimo Donà.
 
Tutto ciò, oltre una memorialistica personale di scarso interesse generale, per significare che cosa?
Che, in fondo, i temi strutturali e portanti della cosiddetta Innovazione nel Settore delle Costruzioni, Intuizione, Informazione e Industrialesimo, restano intatti, dall'Agenzia Europea per la Produttività del primo dopoguerra in poi, in modo, appunto, allo stesso tempo rassicurante e inquietante.
L'interrogativo che, perciò, sorge riguarda la possibilità che, in un tempo refrattario alle visioni di assieme e alle politiche industriali (quelle che, negli Anni Sessanta e Settanta, in particolare, avevano animato il SAIE col Cuore Mostra) sia davvero possibile tracciare un percorso, una strada che si riveli, infine, innovativa, al di là di una collazione di episodi isolati

Non nascondo le mie forti perplessità, a fronte di una comunità scientifica e di un ceto dirigente di quel valore, capace di confrontarsi e di esprimere idee audaci, talora anche fallimentari, ma mai banali, che è ormai inesorabilmente scomparsa.

Quale può essere, allora, il fattore scatenante un vero e proprio cambio di paradigma? La digitalizzazione, forse?

Con ogni probabilità la risposta può essere trovata in essa se se ne colgono, in una ottica più ampia, le annotazioni che recentemente hanno proposto, ad esempio, Marco Bentivogli, Carlo Calenda, Alfonso Fuggetta, Francesco Seghezzi, che, non a caso, costituiscono l'embrione di una nuova classe dirigente in grado di far rintracciare la perduta rotta al Paese.
In assenza di una reale capacità degli attori di condividere un percorso chiaro, sia pur irto di difficoltà, proprio a causa di una scarsa intelligenza sistemica e collettiva dei fenomeni che endemicamente affliggono il Paese, a fronte, comunque, di elevate intelligenze individuali, la digitalizzazione deve essere intesa come una vera e propria cesura epistemologica che, peraltro, cozza con una inveterata resistenza da parte di molti operatori.

Per prima cosa, credo che sia importante non ridimensionare la digitalizzazione a una delle principali dinamiche trasformative del nostro tempo, quali, a titolo esemplificativo, la circolarità e la sostenibilità, bensì intendendola come la categoria per eccellenza in grado di modificare le identità e i prodotti a prescindere dalla nostra volontà.
In secondo luogo, come, appunto, Calenda e Fuggetta ci ricordano più generalmente, occorre evitare che le forme innovative più avanzate, profondamente selettive, non facciano che aumentare la frammentazione di un settore e di un mercato che hanno sofferto, più di altri, anche per causa propria, una tremenda crisi strutturale e che, appunto per via della digitalizzazione, esse accentuino il ritardo dei molti che restano o resistono nel mondo analogico.
È palese, dunque, che la priorità sia, anzitutto, quella di riconoscere i caratteri eccezionali, ma anche ambigui, dell’era digitale, specie per chi non ne possiede appieno consapevolezza.
 
Secondariamente, è decisivo comprendere che occorra traghettare nel miglior modo possibile l’intero mercato nella nuova età.
I protagonisti dell’epoca che ci ha preceduto avevano ben altro spessore, eppure la loro storia è stata, in parte, una storia di fallimenti e, comunque, ci hanno lasciato integri, irrisolti, i termini della questione.
Il pericolo della banalizzazione è incipiente, non foss’altro che per il fatto che essa sia sommamente desiderata dai più.
Non è detto, peraltro, che l’Accademia sia sempre il luogo per eccellenza in cui le risposte agli obiettivi appena elencati possano essere affrontate, poiché sovente essa sembra, nello specifico, adagiarsi sul principio della quotidianità e non appare così sensibile a condividere le incognite che contraddistinguono gli operatori.