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"Ingegni" nei primi ponti in c.c.a. del '900. Il caso delle lesioni sistematiche

Il metodo delle “lesioni sistematiche”, è un interessante “ingegno” per opporsi agli effetti della caduta di spinta nelle strutture in c.c.a. L'articolo analizza l'ingegnoso sistema messo a punto dai progettisti ingg. Santarella e Miozzi per il ponte del Druso in Bolzano

Nei primi decenni del secolo scorso, l'affermarsi del c.c.a. come nuovo materiale edilizio nel settore delle costruzioni consentiva nuove modalità esecutive e, contemporaneamente, poneva problematiche realizzative, a volte, indesiderate.

Come, ad esempio, quella del ritiro del calcestruzzo che, in schemi iperstatici determinava l'insorgere di tensioni indesiderate. Questo è il caso del ponte Druso, ad arco, sul fiume Talvera, in Bolzano.

Nell'articolo si analizza l'ingegnoso sistema messo a punto dai progettisti ingg. Luigi Santarella ed Eugenio Miozzi, finalizzato a minimizzare tali azioni "parassite", che nel caso in esame sono di tipo flessionale. 

I significativi risultati raggiunti in fase cantieristica non possono che destare piena ammirazione, anche in considerazione dell'esiguità dei metodi di calcolo disponibili circa un secolo fa, tant’è che quanto realizzato per il ponte ad arco sul fiume Talvera, in Bolzano è ancora oggi valido.

ponte-druso.jpg Figura 1 – Ponte Druso a Bolzano

Per i tecnici impegnati in progettazioni di strutture in conglomerato cementizio armato (c.c.a.), i primi decenni del secolo scorso costituirono una formidabile occasione per sperimentare il nuovo materiale, spesso anche mediante soluzioni “ardite”. La novità della tecnica costruttiva consentiva una duttilità espressiva, sulla quale molto è stato già scritto sul piano soprattutto formale ed analitico, mentre non sufficientemente esplorata è la pagina che riguarda particolari “ingegni” innovativi, che esaltavano le qualità del nuovo materiale e a volte ne mitigavano alcune inevitabili debolezze, già palesatesi in quegli anni.

Tra queste, ce n’è una, dovuta al fenomeno del ritiro del materiale, nelle sue fasi di presa e indurimento. Problematica da subito evidente nell’ambito dell’ingegneria dei trasporti, rivolta in quel periodo a costruire importanti ponti ad arcate multiple, di notevole luce. La facilità esecutiva tout-court e le “certezze” fornite dalla meccanica del continuo, avevano rapidamente portato al successo la tecnica del c.c.a., in luogo di quella muraria.

Si era però già manifestata, fin da quegli anni, l’insidiosa problematica dovuta alla “caduta di spinta”. Questo fenomeno si produce in una struttura ad arco che, sebbene sagomata (per quanto possibile) secondo la funicolare dei carichi, diviene comunque sede di rilevanti sollecitazioni flessionali, del tutto indesiderate in uno schema resistente, come già indicato, ottimizzato per fronteggiare solo sforzi assiali.

Il metodo delle lesioni sistematiche nei ponti ad arco in conglomerato cementizio armato (c.c.a.): il sistema messo a punto per il ponte Druso (BZ)

Il metodo delle “lesioni sistematiche”, è un interessante “ingegno” per opporsi agli effetti della caduta di spinta, messa a punto dagli ingg. Luigi Santarella ed Eugenio Miozzi e contemporaneamente rappresenta in maniera esemplare il fervore scientifico e tecnologico tipico di quegli anni, comunque ancora pioneristici nel campo delle strutture non convenzionali.

L’applicazione di cui si riferisce è quella del ponte Druso, sul torrente Talvera a Bolzano (figura 1), elegante struttura realizzata nel 1930-31 su tre arcate, con quella centrale di 35,70 m di luce, freccia in asse all’arco pari a 3,90 m, spessore di 1,225 m in chiave e 1,4445 m all’imposta. L’impalcato è di larghezza 15,50 m ed insiste su due archi gemelli, mediante dei travasi sempre in c.c. (figura 2).

ponte-druso-02.jpg Figura 2 – Bolzano, ponte Druso: vista dell’impalcata dal disotto 

Le metodologie progettuali e costruttive del ponte in esame sono minuziosamente illustrate nel 29° capitolo del Libro Ponti Italiani in Cemento Armato, Hoepli 1932 (seconda edizione), scritto da Santarella e Miozzi, dove si trovano riportate le fasi di calcolo e di realizzazione di 31 ponti in c.c.a., che si andavano ad aggiungere ad altri 57 casi, già commentati nella prima edizione del testo, data alle stampe nel 1924.

Questi volumi, a carattere scientifico-applicativo, riverberano tutto l’interesse che il mondo dell’ingegneria accreditava al settore dei trasporti, anche a causa del forte impulso ricevuto dalla fase ricostruttiva post-bellica, concentrata nelle aree teatro delle operazioni militari della I Guerra Mondiale. Infatti, come per altre situazioni eccezionali, anche le conseguenze di quel conflitto fornirono l’occasione per imprimere un’accelerazione allo sviluppo della conoscenza, in quegli anni già fortemente caratterizzata dal rapido affermarsi del c.c.a.

Il testo in questione aveva quindi anche un obiettivo divulgativo, ma da esso traspare tutta la percezione dell’inesplorata potenzialità del nuovo materiale, mentre contestualmente emerge la necessità di mettere a punto “ingegni”, che in maniera quasi pioneristica, ma spesso efficace, affrontavano le (pressoché sconosciute) insidie che insorgevano nei nuovi manufatti.

Il fenomeno della "caduta di spinta" nelle strutture ad arco in c.c.a.

Tra di esse c’è quella già accennata e nota in letteratura come “caduta di spinta”, dovuta al ritiro, fenomeno sempre presente nei calcestruzzi e quindi anche nelle strutture ad arco in conglomerato. Essa era funzione del modulo di elasticità del materiale, del ritiro dell’impasto, nonché delle variazioni termiche nei confronti della temperatura presente nella fase di posa in opera del conglomerato. Tali contrazioni del materiale, sebbene modeste, ineluttabilmente inducono nei sistemi iperstatici l’insorgere di importanti sollecitazioni “parassite”. Le quali determinando negli archi in c.c.a. con membrature snelle, naturalmente preposte a fronteggiare azioni di tipo monoassiale, stati tensionali indesiderati (spesso di tipo flessionale).

Inoltre, per la particolarità della problematica in esame, con l’eventuale ispessimento delle sezioni resistenti, si aggravava ulteriormente il fenomeno della caduta di spinta, la cui entità, ove trascurata, ha portato, in qualche caso, alla perdita dell’intera struttura.

Ai primi del ‘900, l’evolversi della conoscenza consentì di suddividere la contrazione che si registrava nelle fibre strutturali, in due aliquote. Una di maggiore entità e di tipo pressoché costante, preventivamente analizzabile e causata sia dai carichi fissi, che determinavano un accorciamento elastico del materiale, che dal suo ritiro e dalle variazioni termiche (tra la temperatura media annuale e quella del periodo costruttivo degli archi). L’altra aliquota è invece imputabile alla variabilità dei carichi accidentali e alle variazioni termiche esistente tra la temperatura media annuale e quella delle singole stagioni. Valori questi, al contrario dei precedenti, pressoché imprevedibili e quindi non preventivamente fronteggiabili.

Le metodologie messe a punto in quegli anni per contrapporsi a tale problematica furono molteplici. Nel lavoro di Santarella e Miozzi, si fa cenno ad esempio al metodo Freyssinet, con il quale si riconfigurava la geometria iniziale della struttura, posizionando in chiave alle arcate dei martinetti orizzontali che, azionati durante la fase di maturazione del getto conglomerato, divaricano i due semiarchi risultanti, sino a raggiungere la compensazione dell’aliquota di caduta di spinta preventivabile. Successivamente, a distorsione completamente impressa, si procedeva a varare il concio di chiave definitivo.

Miozzi aveva messo a punto anche un altro meccanismo compensativo, posizionando questa volta i martinetti alle imposte degli arconi (figura 3), al fine di determinare un loro riavvicinamento, di entità pari all’accorciamento conseguente alla caduta di spinta.

ponte-druso-03.jpg Figura 3

L’ “ingegno” proposto ed attuato nel caso del ponte Druso, è molto diverso da quelli precedenti e nella sua applicazione tecnologica verrà descritto nel paragrafo successivo, mentre qui di seguito si descrive, in modo sintetico, il metodo e gli sviluppi analitici condotti dagli autori del testo, confrontandoli anche con due impostazioni sviluppate dallo scrivente, al fine di valutarne i risultati.

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